cominciamo da qui

lunedì 30 luglio 2007

OTTO LEPROTTO SALVACI TU!
prima del chip

Centinaia di spalle e nuche in file disciplinate da paletti e catenelle si abbrustoliscono sotto il sole di luglio che picchia sulla riviera romagnola. L'addetto alle montagne russe sogghigna nel rilevare la percentuale di ormone adolescenziale sprigionato nell'aria densa, un altro sabato di pienone, il Kapo sarà soddisfatto.
Il treno ritorna alla partenza dopo l'ultima discesa, i ragazzi scendono e l'addetto prepara il tergivetro per raccogliere il sudore che hanno lasciato sui sedili di plastica marrone. Dà un'occhiata alle schiene dei ragazzi che scendono le scale e immagina il rumore del tergivetro sulla loro pelle, dovrebbero dargli l'autorizzazione a farlo, a correr dietro ai più promettenti e tirar via quelle perle brillanti riversandole nelle ampolline in dotazione, un vero spreco lasciarli andare via così ad asciugarsi al vento.
L'addetto non sa che la raccolta del sudore è solo l'ultimo degli scopi per cui è stato aperto il parco. Il primo e più florido traffico è quello basato sulla distillazione dell'adolescenza.
Ogni attrazione è studiata scientificamente allo scopo di stimolare la produzione di adrenalina negli avventori. Speciali microscopiche sondine entrano sottopelle nei visitatori non appena si siedono e stringono le barre di sostegno, allacciano le cinture, agganciano le imbracature di sicurezza. Le sondine si insinuano e pompano adrenalina, ormoni, succhi vitali fino al centro di raccolta situato sotto la macchina principe di tutto il parco: il katun. Progettato dai migliori ingegneri con l'ausilio dei neurologi più accreditati, ogni inclinazione del percorso, ogni curva, ogni accelerazione, agita i corpi delle giovani cavie e stimola i giusti punti energetici.
Sotto terra, nel centro di raccolta, un enorme verme rosa, Mirabilio, passa le sue giornate a mollo nella vasca di fermentazione dei fluidi vitali, nutrendosi delle emozioni artificiali generate nei visitatori. Dalla fermentazione viene ricavato un distillato pagato a peso d'oro da vecchie cariatidi che credono nelle virtù guaritive e stimolanti del prodotto.
Ma il nuovo piano quinquennale prevede altre e più redditizie vie per aumentare esponenzialmente i ritmi di produzione.

martedì 24 luglio 2007

sabbia: prima versione

La prima cosa che scrissi dopo aver abbandonato alla sua noiosa e triste sorte la protagonista di un romanzo in cui non accadeva nulla.
Nel tempo l'ho ripresa, l'ho cambiata, spuntata, tagliata e rimpastata.
Poi, è stata affidata alle mani di una persona, che a sua volta l'ha smontata e rimontata.
Infine avevo deciso di pubblicare ritagli dell'ultima stesura...
per onestà e per nostalgia però, ecco qui "sabbia" nella versione integrale, delirante, ingenua.


Ho baciato la mia migliore amica.
Bene.
Ora, definitivamente, non ci capisco più niente. Non ho punti di riferimento. Nemmeno uno, misero. Prima per lo meno distinguevo il giorno dalla notte, ora credo si sia ribaltato anche quello scarso senso del tempo che avevo. Posso guardare ogni cosa e credere che sia ciò che è, ciò che mi sembra, il suo contrario, la sua essenza o solamente il suo contorno. Quando non hai parametri, tutto è credibile.
In fondo, però, non è difficile, un po’ triste forse, ma mica difficile. Comincio a prendere confidenza con questo strano deserto. All’inizio avevo paura, soprattutto dei miraggi, ma ora mi trovo a mio agio qui. Basta camminare senza preoccuparsi della direzione, senza spaccarsi le palle alla ricerca di una meta. Gli altri non capiscono, si affannano verso i loro obiettivi. Io no, io ora lo so che tutto è solo un’allucinazione. Sono sveglia, io. Mica mi fregano con i loro modelli.
Quando mi sono trasferita in quella casa (questa casa? sono ancora qui?) pensavo di aver raggiunto la mia libertà, sarei stata sola ma incondizionatamente libera. Giravo fra quelle mura a testa in giù e nessuno, proprio nessuno, poteva protestare.
Poi, tutto ha cominciato a trasformarsi in sabbia, anche Sanzio. Lui ci ha messo una settimana per sgretolarsi completamente, ma alla fine non ne rimaneva nemmeno la coda.
Ora la gente continua a venire qui a cercarci, bussano all’immagine che è rimasta del mio portone, chiamano.
A volte apro. A volte no. A Marzia ho aperto. E poi lei mi ha baciata. E io ho baciato lei. E tutto si è spostato ancora un po’ più in là. Non credo che potrò mai uscire da qui. Non più.
All’inizio pensavo di sì. Ero convinta che questa storia del deserto e dei miraggi fosse solo un problema di cuore. Lui era passato nella mia vita, nel mio stomaco, nella mia testa così velocemente da aver creato un vuoto dietro sé, da aver risucchiato buona parte della mia lucidità. Ma qualcuno da amare si trova sempre. Qualcuno su cui giustificare e coltivare l’amore per sé stessi.
Lui, forse Marzia, anche il mio gatto in qualche modo (anche se in questo stato di dunetta miagolante non fa più molta tenerezza), o un figlio un giorno. O uno dei miei miraggi, finché dura almeno, prima che ne arrivi un altro. Devo solo stare attenta a non trasformarmi in sabbia. Tutto qui. Sempre vigile. Posso fregarli tutti se voglio. Ce la faccio, cazzo, sono di pietra io.


Sanzio ha annusato qualcosa con il suo naso di sabbia, come può riuscirci non lo so, ma continua a girare in tondo e ad annusare. Mi incuriosisco, scavo un po’ e rimango a guardare. Se questa è un’allucinazione non è niente male. Un passaggio segreto. Minchia. Ricopro tutto e mi ci siedo sopra e penso.
Forse se vado non potrò tornare indietro, ma non ho molto da perdere qui. Non ho nessuno da perdere qui. Aspetto ancora qualche momento del mio tempo senza misura e poi prendo secchiello e paletta e raccolgo Sanzio, almeno lui lo porto con me. Sta messo male, ma è l’unico compagno di viaggio che posso permettermi, Marzia ora mi spaventa. E io spavento lei. Un giorno la cercherò, potrei innamorarmi di lei. Ora però devo andare.
Il passaggio segreto è fresco, da quando nella mia testa l’alternarsi fra giorno e notte è andato, sono sotto il sole cocente del deserto. Niente sbalzi termici, va bene, ma un caldo da impazzire. Qui invece c’è ombra, muschio, umidità. Ho visto una ranocchia e una biscia d’acqua. Troverò uno stagno più avanti. O magari un laghetto.


È il lago più bello che abbia mai visto. L’acqua non può che essere potabile, è troppo perfetto per essere velenoso. Se quella polla di Biancaneve avesse osservato meglio la sua mela una piccola imperfezione l’avrebbe trovata. E avrebbe capito. E avrebbe mangiato bucatini, o caponata, o uno dei nani, ma non la mela. A me non m’avrebbe fregata la strega.
Non mi fregano nemmeno ora, chiunque sia il mio Gran Guru delle allucinazioni, stavolta me ne ha mandata una che mi voglio godere in pieno, quindi bevo. Non posso sapere quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho bevuto, ma devono essere, a naso, due anni.
Ci sono pesciolini blu che mi girano fra i piedi, non ci posso credere. Sanzio ha tirato fuori il muso dal secchiello e mi guarda felice. O forse sta puntando i pesciolini, assassino.
Dall’altra parte del laghetto c’è lui. Il vuoto nello stomaco ricomincia a farsi sentire, forte come all’inizio. Che faccio? Per raggiungerlo dovrei nuotare come una disperata, non avrei mai le forze per arrivare di là, annegherei a metà, ne sono sicura, ed è impensabile arrivarci a piedi, ci sono piante e rovi tutt’intorno questo perfetto lago. Ecco, se c’è una piccola certezza su cui ancora posso contare è che non ho alcun modo di raggiungerlo.
Sta entrando dentro casa, non mi ha vista. I pesciolini blu sono ancora qui, ma hanno perduto ogni interesse; se per Sanzio sono ancora il miglior pasto che abbia avuto sotto gli occhi, per me sono solo puntini insignificanti. Dall’altra parte del lago, dietro quella porta, c’è lui. Tutto il mio corpo reclama, urla ora, stanco di essere parziale, mancante. Credo che per questa volta lo ascolterò, ci provo. Male che va, morirò affogata in un lago immaginario, niente di definitivo. Mica sono scema, so che non si muore per davvero nelle allucinazioni.


Quando la gente dice che la mente può giocare brutti scherzi, non sbaglia. Questo lago, da tranquilla pozza d’acqua, è diventato un’infinita distesa che cresce di due metri per ognuno che avanzo arrancando in una specie molto poco coordinata di stile libero: nasconde correnti, alghe rampicanti che si attorcigliano alle caviglie e mostri acquatici che cerco di non vedere.
Sono stanca, continuo a bere acqua (e, beh, comincio a convincermi che sia velenosa, forse muoio presto così la finiamo con questa faticata, non ce la faccio più), le gambe mi fanno male e le braccia girano a vuoto. Continuo a fare solo un casino di spruzzi ma non mi muovo di un centimetro. Forse è arrivato il momento di lasciarmi andare giù, riposarmi sul fondo e aspettare che questa grandissima fregatura di allucinazione finisca. Una grandissima fregatura. Devo cercare quel coglione di Guru e dirgliene quattro: appena esco di qui lo gonfio, appena riprendo un po’ di fiato lo prendo a bastonate, non appena riesco di nuovo a muovere in maniera consapevole le braccia gli sposto i lineamenti in modo statisticamente casuale. Ma prima, gli tolgo qualsiasi autorità sulle mie percezioni. E cazzo, il cervello allucinato è il mio? Quindi in qualche angolo del mio casino mentale deve esserci la sceneggiatura di questo miraggio, basta scovarla e cambiarla a mio piacimento. Devo fare in fretta però. Pensare sul fondo melmoso di questo lago non è semplice, mi manca l’aria e quei mangiacaccole di pesciolini blu mi stanno entrando a branchi nelle narici.


A guardarla da dentro si capisce perché la mia testa funziona in maniera così stramba. Anzi, a guardarla da dentro stupisce il fatto che riesca a mantenere un’attività elementare di sopravvivenza. In questo casino non c’è traccia della Sceneggiatura. Niente. Continuo a rovistare (e già che ci sono faccio pure un po’ di pulizie, gettandomi fuori dalle orecchie l’inutile zavorra dei ricordi dolorosi), ma il tempo passa e se non fosse per Marzia, che appare qui in fondo al lago per portarmi un po’ del suo respiro, sarei già affogata. Bene, allora eccola.
Un gruppo di neuroni punk, bellissimi con le loro creste di dendriti, la stava utilizzando per alzare le barricate nella zona di cervello in autogestione. Propongo loro uno scambio: le spine dei cactus che mi sono rimaste infilzate nelle chiappe per i miei fogli. Espongo i vantaggi di una barricata di resistentissime e inquietanti spine rispetto a una costruita con miserissimi fogli di carta e aggiungo all’offerta, perché mi voglio rovinare, due splendide spille con la A di anarchia, che potranno appuntare orgogliosi sul petto, in omaggio. Accettano entusiasti. Prendo i miei fogli e mi metto al lavoro, lasciandoli nel pieno di una zuffa per spartirsi i gadget anarchici.
Ho poco tempo, la bocca di Marzia è morbida e piacevole ma non credo di poter sopravvivere a lungo così, l’ossigeno è troppo poco, anche i neuroni si stanno accasciando. Quindi salto i particolari e vado dritta al finale: cancello la parte in cui io muoio sbranata dalle meduse di lago (e che cazzo, quel Guru mi deve odiare per una decina di ottimi motivi), scrivo due righe veloci giusto per specificare che alla fine sarò in buona salute e mi lancio fuori dalla fontanella lambdoidea che, fortuna mia, nel mio cranio non si è mai chiusa completamente.


Risalgo veloce dal fondo e in quattro bracciate olimpioniche sono sull’altra sponda del lago.
Busso alla sua porta e mentre aspetto che apra mi guardo riflessa nell’acqua: per la fretta ho dimenticato di descrivermi bella come il sole e così mi ritrovo con quello che passa il convento. La fatica della nuotata e la lunga permanenza sott’acqua, fra la melma, non hanno fatto bene al mio colorito né ai miei capelli. Ho le narici imbottite di pesciolini blu e le chiappe gonfie per l’estrazione delle spine. Nel complesso non assomiglio a una dea.
Lui, invece, è bello da accecarmi. Lo abbraccio e appoggio la fronte al suo petto. Vorrei parlargli della mia solitudine in quel deserto, della confusione per il bacio di Marzia, della paura per la sua assenza e di tutte le volte che ho sperato che mi sentisse e che capisse da lontano quanto avevo bisogno di lui, che ho pregato non so quale dio di portarlo da me, fino a farmi scoppiare la testa dal dolore e dalle lacrime. Forse glielo sto dicendo o forse lui può davvero ascoltare i miei pensieri, perché mi stringe di più e mi accarezza i capelli. Comincio a credere che questa sia la mia vera e grande storia d’amore, di quelle che non finiscono mai. Forse noi due siamo fatti per stare insieme, complementari, indispensabili.
Sento che le sue braccia potranno curare tutte le mie parti malate. Non voglio tornare indietro, voglio restare così, sospesa per sempre, questa piccola parte di universo può bastarmi, non ho bisogno d’altro. Marzia mi capirà e io capirò lei, un giorno.
Ma lui parla d’altro, e io non riesco a sentirlo. Qualche ricordo doloroso deve essere rimasto incastrato nelle mie orecchie, perché le sue parole sembrano solo un fruscio, non le distinguo o non voglio farlo. Non mi abbraccia più, ora. Mi guarda e quelle parole indefinite continuano a spuntare dalla sua bocca. Penso che dovrei scappare via. Sto correndo giù dalle scale (c’erano delle scale prima?) e lui ora urla, adesso capisco, sta chiedendomi scusa. Scusa? Di cosa? Voglio andare via, più veloce di così, ma ho ancora i piedi bagnati e scivolo giù.


Non sono più scale queste; sto precipitando in un passaggio segreto. È fresco, c’è ombra e muschio. Mentre cado vedo una biscia d’acqua e una ranocchia. Devono essersi rintanate qui perchè fuori fa molto caldo.C’è una specie di deserto. Mi sembra di essere stata qui un milione di volte. C’è anche Sanzio; non mi stupisce che sia un gatto di sabbia. Lui mi ha lasciata andare via e il mio gatto e tutto il mio mondo sono diventati di sabbia. Sono scappata via da Marzia e poi l’ho cercata, mi sono presa cura di lei e lei di me. Ho baciato la mia migliore amica, ho annodato il filo del mio tempo fra le sue dita e dev’essere allora che qualcosa si è fottuto nella mia testa. Non so.

sabato 21 luglio 2007

terra di nessuno

con candore ammise la sconfitta
[totale disinteresse]
alzando le braccia
di nessuna battaglia
dichiarò
di esser parte

aprì i palmi
lasciò
volare via
[polvere]
un pugno
di terra asciutta

sciolse i labirinti
negli occhi
[pungere]
un punto
vibrante
a dipanare le curve

sabato 14 luglio 2007

fAnGo

chiedo venia per la rielaborazione di cristo morto, andrea mantegna

Stesa sul fondo del lago guardo in alto e vedo il mondo deformato dallo specchio dell'acqua.

Il lago più bello che abbia mai visto

Niente di quello che appare
sembra valere la fatica di risalire su.

Continuo a cercare nella mia testa un ricordo senza spigoli che facciano male alle mani, senza vetri che mi feriscano. Ma sul fondo melmoso di questo lago anche i pensieri sono come il fango, si impastano, si sciolgono.

solo il viso di lui rimane

[netto]

di lui solo il viso rimane

[ma non lo vedo mai per intero]

sabato 7 luglio 2007

Enzimi|Personaggi 2: Marco

Dicono che un vero scrittore sa guardarsi intorno in cerca di storie.
Ho sentito quel gran figo di Colson Whitehead dire in un'intervista che lui gira per New York col suo bloc-notes in mano per fissare appunti su ciò che lo circonda, poi, tornato a casa, riprende quegli appunti e ci costruisce su racconti e romanzi.
A me sembra invece che sia tutto nella mia testa, forse è per questo che non sono una scrittrice. Forse è per questo che, semmai ho fatto qualcosa che somigliasse alla
scrittura, ora comunque non lo faccio più.

L'altro giorno però in metropolitana seduto di fronte a me c'era un uomo sulla quarantina, decisamente elegante, fisico asciutto e carnagione scura, occhi azzurri, capelli neri cortissimi, niente fede ma anello di acciaio al pollice, un piccolo tatuaggio sul lato del collo che spuntava dal colletto della camicia (credo fosse un tribale ma non lo vedevo bene), che a un certo punto mi guarda e mi sorride: denti bianchi e perfetti, che mi fanno venire voglia di un morso.
Ora, se fossi stata una scrittrice avrei potuto appuntare sul mio quaderno i tratti salienti di una storia in cui lui si chiamasse Marco e io in qualsiasi modo lui volesse chiamarmi, per poi arrivare a casa come mr. Whitehead, pestar giù sulla tastiera e dar corpo alla relazione amorosa più pazzesca si sia mai vista sulla linea metro A di Roma. In ogni caso, lui, con questa aria da uomo realizzato, inserito e perfettamente sicuro di sé, ma che al tempo stesso lasciava intendere la voglia ancora viva di trasgredire e di divertirsi anche fuori dalle regole, si presterebbe bene a ispirare un interessante personaggio.
Ma non sono una scrittrice.
Marco, però deve aver pensato che lo fossi, perché mi ha vista intenta a scribacchiare sulle mie paginine a righe.
Solo la vecchina che mi era di fianco, invece, ha visto che stavo buttando giù disegnini osceni da quarta elementare.
Ognuno, dico io, asseconda la propria inclinazione.