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sabato 17 gennaio 2009

lunedì 5 gennaio 2009

giovedì 1 gennaio 2009

galleggiare (no future)
versione provvisoria, sì, ma meno di prima

When there’s no future how can there be sin?

Ha le gambe penzoloni nell’acqua, il manico della tazzina stretto fra due dita, la busta con i risultati delle analisi, ancora chiusa, poggiata sulla pancia. Il telefono sul bordo della piscina, muto, il filo troncato a metà e ripiantato nell’erba. L’altro telefono, rimasto dentro casa, in soggiorno, squilla di nuovo a lungo, poi smette.

***

Lei dice non mi importa se mi credi o no, è la verità, poi tu credi pure a quello che ti pare. Quindi è sicuro che mente.
Forse avrebbe dovuto dirglielo in quel momento, invece di chiedergli di leggere. Invece che nascondere il viso e premere la fronte e il naso contro il suo braccio. Avrebbe dovuto spiegargli perché, dopo quella telefonata, da lui non voleva altro che continuasse a leggere e a muovere la mano.
La finestra sopra il lavello del mio cucinino è stata ripulita dal violento acquazzone di stanotte e ora è una mattina di sole, è ancora presto, e fuori c'è un casino di verde.
Quando aveva iniziato a piangere aveva dovuto dirgli di andare avanti. Lui le aveva chiesto di voltare la pagina e aveva ricominciato.

***

La tazzina le scivola dalla mano e affonda nell’acqua, sparisce quasi subito, andandosi a posare fra gli oggetti sotto di lei: piatti, bicchieri, due lampade in vetro e acciaio, un portariviste, il divano che solo pochi giorni prima aveva trascinato fuori, rotolato lungo il prato e poi gettato in piscina.

Aveva solo aspettato, da quando i suoi erano partiti e da quando aveva ricevuto la notizia, aspettato che arrivasse il tempo perché il test fosse affidabile. Nel frattempo aveva pensato all’inutilità di ogni sua azione se il risultato fosse stato positivo, la mancanza di valore di qualunque piccola attività quotidiana, anche andare a fare la spesa e spingere il carrello correggendone la direzione perché una delle ruote, più lenta, avrebbe tirato dalla sua parte.  

***

Svegliati, ti faccio vedere un posto, vieni con me.

Il torrente è poco dietro la casa, dieci minuti di cammino. Lui si toglie scarpe, pantaloni e maglia ed entra dentro, con calma ma senza voltarsi.
Rabbrividisce dentro la felpa, tira giù le maniche a coprire anche le mani abbracciandosi da sola. Lo guarda e aspetta che si volti verso di lei, che sorrida del suo starsene rannicchiata in sé, dicendole che quel freddo è la sensazione più bella che esista. Ha le gambe dentro l’acqua, piantate fra i ciottoli, salde in mezzo alla corrente che sembra volerlo tirare via, il braccio teso verso di lei. Dai, su, ti tengo io.
Mette i piedi dentro, il torrente è gelido, ma è vero: è la sensazione più bella esista. Sente nuovamente di avere un corpo come se finora avesse scordato l’esistenza delle sue braccia, delle sue gambe, della schiena, della pancia. Si schiaccia contro di lui, il calore che viene del petto, stretto fra i loro stomaci, e tutto intorno il gelo.

Lei allunga una mano verso i rami degli alberi che si piegano verso l’acqua.
A volte, durante le piene, il livello del Tevere supera in altezza gli alberi che crescono lungo gli argini, gli dice, e quando l’acqua scende di nuovo fra i rami rimangono buste di plastica e vecchi vestiti, lacci, fogli di carta, reti metalliche.
Lui guarda le montagne sopra di loro, poi la nuca di lei.
Reti metalliche?
Sì, come delle decorazioni di natale, e gli alberi sembrano in festa.
Delle reti metalliche?

Avrebbe voluto raccontargli la storia di una donna che si spogliava e gettava gli abiti dal ponte, una barbona nuda in pieno inverno, grassa e bellissima e indifferente al freddo, e della grazia leggera con cui i suoi stracci cadevano giù. Ma pensa alla madre di lui, a quando l'aveva trovata una mattina dentro la fontana della piazzetta vicino la scuola, a come era bella, con i capelli rossi bagnati e quei seni grandi che aveva guardato a lungo (lei ne aveva solo un accenno), al modo in cui l'aveva salutata all'inizio, riconoscendola solo dopo qualche minuto, quando si era convinta a uscire e lei l'aveva aiutata a rivestirsi. 
Esce dall’acqua troppo gelida, con le punte dei piedi ormai viola e le mani raggrinzite, e si stende sull’erba al sole chiudendo gli occhi, e poi, lo sente arrivare.
 
***

Sulla sua poltrona gonfiabile si lascia pungere dalle zanzare che volano a pelo d’acqua, nell’incavo del bracciolo, fatto per metterci un bicchiere da cocktail, c’è infilato il suo telefonino che ogni tanto squilla e al quale risponde sempre. O almeno quel tanto che basta a non far allarmare nessuno.
Di solito è sua madre, le sue telefonate non sono impegnative, deve solo rassicurarla sul fatto che non sta dando festini pieni di superalcolici che finiscono con gente che scopa o vomita in piscina, dietro i cespugli, nei bagni e dentro le camere. Ogni volta le ripete che la casa è vuota, che non c’è nessuno, sottolineando vuota e nessuno, senza che mai sua madre la corregga. Infastidita, ammette che è troppo sottile la differenza fra il suo esserci o no perché sua madre se ne possa accorgere anche se fosse lì davanti, in piedi sul prato, e non in Giappone.

Nei primi giorni era stata chiusa in camera e aveva fatto ricerche continue, calcolato le probabilità: avevano scopato tre volte, sempre senza preservativo; partiva dall’incidenza media, il 19% di contagio da uomo a donna, e divideva o moltiplicava in base al numero dei rapporti, a quanto e cosa avevano fatto.
Poi i suoi erano partiti e la piscina con l’acqua verde, stantia, malata, immobile, covo di insetti che brulicavano in superficie proprio come un morbo, le era sembrata il posto perfetto per attendere: per non pensare, galleggiare e attendere.

Sgambetta nell’acqua rompendo in piccole scaglie il velo denso che si forma in superficie mentre sua madre le chiede se ha chiamato la ditta per la pulizia della piscina, se hanno cambiato l’acqua, se i filtri sono ripartiti. Sì, la piscina è piena e casa è vuota. Il che è tutto vero: la sua stessa presenza lì non ha alcun valore, visto che si è ridotta a figura inerte a mollo quasi tutto il giorno nell’acqua che nessuno ha più cambiato dall’estate precedente; e la casa è davvero vuota, saccheggiata di quasi tutti i mobili – almeno di quelli che riusciva a spostare da sola, la cucina, la libreria a parete e gli armadi più grandi sono ancora ai loro posti - che uno alla volta sono stati gettati nella piscina. Ultimo lo stereo, dopo aver provato tutti i dischi in vinile e tutti i cd sparsi nel soggiorno e nella sua camera senza trovarne uno che si avvicinasse alla musica che voleva ascoltare.

***

Le dice di versare un po’ di vino nella carne sul fuoco. Lei ne mette anche un bicchiere per sé e uno per lui, svuotando quello che rimaneva dell’ultima bottiglia. Con il bicchiere in una mano, allunga l'altra, prende il pacchetto e s’accende una sigaretta; si avvicina alla finestra, apre i vetri per far uscire il fumo fuori: piove e qualche goccia le va sul braccio poggiato sul davanzale, sulle dita, sulla carta bianca che racchiude il tabacco.

Dovresti smettere, sai? Non ci posso credere che la gente continui a fumare.

Smettere? Per la mia salute? Dici che fumare mi fa male?

So dove vuoi andare a parare: troppo scontato, e in ogni caso sì, fa male.

Se mi dici che m’uccideranno prima della fine del mondo, se mi dici che me la risparmieranno allora me ne accendo subito un’altra.

Ah, e non ti sentiresti responsabile né di un tuo tumore ai polmoni né della fine del mondo?

E sentiamo, cosa dovrei fare? Cosa? Eh? Se smetto di fumare, se faccio una vita salutare, da salutista, come fai tu, se mi chiudo in un eremo a coltivare il mio orticello, se compro vestiti che sembrano sacchi di iuta, fatti da qualche contadino fattone, allora sarò nel giusto?

Non lo so, io penso di essere nel giusto.

Per un orticello?

Non è un orticello e basta, è un progetto e funziona. 

Progetto? È un'utopia.

La trascina fuori, le tira un braccio giù, fino a farle affondare le mani nella terra. Questo è reale. Questo è avere un progetto per il futuro, le dice. 

Il futuro è un'utopia. E qui piove, torniamo dentro.

Smettila. Resta qui.

Restaci tu in mezzo al fango, io torno dentro.

Vieni a vivere qui.

Ma quando? Ora? Per sempre?

Venerdì vai a casa, poi ti organizzi e torni, per restare. Non è mica assurdo: non potresti lavorare da qui?
(Tu non morirai vero?)

Perché? Perché pensi che voglio essere salvata da qualcosa?

Io non sono capace di salvare nessuno. Vorrei solo che restassi qui.
(Guarirai?)

Ci penserò.

Seriamente?
(Mamma, me lo prometti?)

Sì.

Non so se crederti.

***

Era capitato, come capitava spesso, che lei fosse una delle persone che verso metà della festa scopavano in piscina o vomitavano nel giardino. Poi, lui l'aveva chiamata, passi da me?, e lei era andata. Ma non poteva sapere, ancora. 
Ora invece sapeva: che non ne sarebbe morta (forse non sarebbe nemmeno diventata una malata, che il destino del mondo probabilmente sarebbe stato più veloce a chiudere i conti di quanto potesse mai esserlo la malattia), di non provare niente per sé (preoccupazione paura speranza), che se la percentuale media di contagio per via sessuale da uomo a donna è del 19%, quella da donna a uomo scende al 2,4% ma che non c'era modo di calcolare quanto rischiasse lui, e che piccola o grande quella probabilità era l'unica spina a infastidirla, l'unica eventualità per cui sentirsi responsabile. 

Forse avrebbe dovuto avvisarlo, forse avrebbe dovuto chiamarlo, o rispondere alle sue chiamate, per consigliare anche a lui di fare il test, ma non l'aveva fatto.
Forse avrebbe dovuto dirglielo subito, appena ricevuta la chiamata. Appena ripescato il cellulare dalla vaschetta del lavello piena di acqua saponata, subito dopo averlo individuato fra i piatti e le posate che avevano sporcato a cena. Le era sembrato uno di quei pesci mostruosi degli abissi per via della lucina che continuava a lampeggiare, e nell'afferrarlo e sciacquarlo sotto l'acqua corrente aveva avuto paura che mostrasse la sua vera natura, che le mordesse una mano o la paralizzasse. Poi l'aveva asciugato, spento e riacceso ed era tornato a essere un cellulare, il suo, che squillava, che le permetteva di ascoltare una persona, che le avrebbe anche permesso di accusare quella persona, di chiederle se ancora si sentiva nel giusto, se ancora considerava valido e reale il suo progetto per il futuro. Non aveva però risposto niente, aveva solo spento nuovamente il cellulare ed era tornata a sedersi sul divano, lasciando che la sua mano le alzasse la gonna, chiedendogli di non fare altro che leggere e continuare a muovere le dita.

Apre la busta, legge l’esito, poi lascia cadere il foglio in acqua. Non sa dire se la risposta è quella che prevedeva. Dovrebbe essere felice, dovrebbe forse scattare su dalla poltrona gonfiabile, uscire dalla piscina, farsi una vera doccia, provare a ricominciare, invece rimane immobile. Con un piede si spinge verso il centro della piscina, guarda disgustata l’acqua intorno a sé e pensa che quel peso la porterà giù, fra gli oggetti sul fondo e che, come per questi, anche di lei si intuirà solo la sagoma indefinita, senza speranze e senza giustificazioni, senza scuse per l’incapacità di tornare a galla.

2008: la profezia pop

È difficile resistere al Mercato, amore mio
Di conseguenza andiamo in cerca
di rivoluzioni e vena artistica
Per questo le avanguardie erano ok,
almeno fino al ’66
ma ormai
la fine va da sé
È inevitabile

Anna pensa di soccombere al Mercato
Non lo sa perché si è laureata anni fa
credeva nella lotta, adesso sta
paralizzata in strada
finge di essere morta
scrive con lo spray
sui muri
che la catastrofe
È inevitabile

Vede la fine in metropolitana,
nella puttana che le si siede a fianco
nel tizio stanco
nella sua borsa di Dior
Legge la Fine nei saccchi dei cinesi
nei giorni spesi al centro commerciale
nel sesso orale, nel suo non eccitarla più

È difficile resistere al Mercato, Anna lo sa
Un tempo aveva un sogno stupido:
un nucleo armato terroristico
Adesso è un corpo fragile che sa
d’essere morto e sogna l’Africa.
Strafatta, compone poesie sulla Catastrofe

Muore il Mercato per autoconsunzione
Non è peccato, e non è Marx & Engels.
È l’estinzione, è un ragazzino in agonia.

[il liberismo ha i giorni contati, Baustelle]

Speranze e propositi per l'anno nuovo: che la crisi si porti via un modo di intendere lo sviluppo in senso rettilineo e basato su un aumento progressivo della produzione (e dei consumi); che il mondo non finisca e che si capisca cosa dobbiamo fare, tutti, per avere ancora una chance; che io riesca a dimagrire almeno 6 chili; altre due cose toppsìcret.