cominciamo da qui

lunedì 30 giugno 2008

kakà


... questa è una goccia che evapora da sè
questa gioia che ci illude avrà cura di noi
affondo in nora, affondo in nora
certo è che è la fine
la so distinguere
più di ogni tua rinuncia che sa di polvere
affondo in nora, affondo in nora...

sabato 28 giugno 2008

Come se servisse l'ennesimo post sui disagi dei pendolari

nella realtà delle intenzioni questo è un post sulla malignità dell'uomo
(o: sull'estinzione della vecchina gentile)

Sul treno regionale Roma-Napoli delle 18:50 quasi tutti i (pochi) vagoni sono dotati di aria condizionata, perciò i finestrini sono bloccati. Ovviamente, l'aria condizionata non funziona mai.
I posti sono pochi, si viaggia in piedi e ammassati e d'estate, dopo una giornata di lavoro, il pendolare medio non odora di rosa selvatica.
Ma io, che sono una donna di classe, non lascio scompigliare il mio aplomb dalle contingenze. Io cerco nella borsa delle stampe che ho già letto, un bell'editoriale di una collega, apro i fogli e li distendo ordinatamente sui gradini di accesso al vagone e poi mi siedo nell'ottimistica convinzione che il mio culo riesca a stare, da seduta, dentro le dimensioni di un A4.
Leggo. O ascolto qualcosa nelle cuffie. O penso. O cerco di fare tutto insieme col risultato che rimango inebetita a guardare fuori dal finestrino con un libro aperto sulle ginocchia e il lettore MP3 che va avanti random. Ieri invece non ho tentato di fare nulla, stavo solo seduta, spenta, e cercavo le chiavi dell'ufficio in borsa per via di un sms intimidatorio ricevuto solo qualche minuto prima. Trovo le chiavi e mi preparo a rispondere quando qualcuno mi bussa sul culo. Una vecchia con tanto di bastone, in piedi dietro di me, mi toccava con la punta delle scarpe. Dei piccoli colpetti, dei calcetti insistenti e malevoli. Mica forte, eh. 'Ché se fosse stato forte, se fosse stato violento, rabbioso, un calcio per dirmi "stronza levati" avrebbe avuto un senso. No, quei colpetti erano solo sprezzanti, indifferenti, schifati di me.
Mi sono alzata e l'ho lasciata passare, quella vecchia troia col suo bastone, ho pensato che la vera malignità dell'uomo sta in questi piccoli gesti cattivi e immotivati e non nelle azioni plateali di violenza, poi ho guardato con maggiore obiettività la superficie del foglio a terra, ne ho aggiunto un altro di fianco, e mi sono seduta nuovamente.

lunedì 16 giugno 2008

ospite?????
collaboratore????
chi lo sa...

eccolo... il nando ...
entra clandestinamente nei blog altrui...
ma de che!!!!! invito ufficiale della bernarducci...
grazie bà...
mo so caxxx!!!!

saluti a tutti

mercoledì 11 giugno 2008

Fastidiosa come una mosca

di Massimo Vaj

Ogni giorno si appostava dietro la grondaia di un fast food, scelto come suo territorio di caccia. Non era il cibo appiccicoso insacchettato là dentro a ingolosirla, ma il sudare frenetico degli umani accalcati attorno a quei sacchetti colorati. Lo scenario le ricordava la porcilaia dove era nata, per un miracolo del cielo, in quella sua culla costituita da brandelli di carne attaccata a un osso, sprofondato in un canaletto di liquame che il muso dei maiali non riusciva a raggiungere. Quel brandello marcio era culla per lei e le sue tre sorelle, abbandonate in fretta dalla madre un po' puttana, che si scopava tutti i mosconi della zona. Mai aveva pensato, in quel suo vermicolare ingobbito, di poter un giorno volare. Un umano avrebbe dato il merito alle "Infinite vie del cielo", nel suo non sapere che i principi fondamentali dell'esistenza obbligano a essere Infinito solo l'Assoluto che di quel cielo è causa. La mosca, quel duro principio che voleva tutto il resto essere pieno di limiti lo sperimentava quotidianamente, nella fatica del sostenersi, e così non s'aspettava improvvise vincite che avrebbero espanso le sue risibili possibilità. Cercava quindi di sfruttarle al meglio senza puntare troppo ai miracoli.
Già era in debito col Creatore per la dose mediocre d'intelligenza che le consentiva di mettere la proboscide solo sul sudore degli umani e non nelle salsine ripugnanti che rendevano inattaccabili anche quelle belle masse marroni, imputridite, chiamate hamburgher.
La caccia era divertimento puro, un'esibizione di cabrate e picchiate, velocissime solo se paragonate alla snervante lentezza degli umani, che la inebriavano assai, tanto da permetterle di posarsi, senza rischi, di lato agli occhioni della gente instupidita, per pungerli negli angoli dove poi succhiava le lacrime, col retrogusto eccitante di coca cola light.
Per fortuna il complesso sistema di filtri col quale il corpo umano purificava quel cibo velenoso, le forniva sudore abbastanza depurato da poter essere digerito senza subire sconvolgimenti al suo stile di volo.
Quella mattina i tavoli del fast food si erano sporcati presto di persone, e la mosca era decollata rapida, col solito sfregarsi di zampe uncinate e pronte a tutto.
Dopo una mezz'ora di succhiate libidinose, a ogni dieci battiti d'ali le usciva un ruttino acido di appagamento che la costringeva a ruotare, in volute strette e scombinate, che la imbarazzarono presto di stanchezza. Così, senza nemmeno pensare al pericolo che avrebbe corso, si posò sfinita, e anche un po' troppo a lungo, sull'unto di un sacchetto di patatine di un ragazzino, vorace quanto lei, e che si muoveva a scatti come faceva anche lei. L'assonanza misteriosa che legava le loro nature, che avrebbero dovuto essere così diverse, era accentuata dai peli ispidi, neri lunghi e radi che attorniavano gli occhi troppo grandi e lucenti di quel grande bipede masticante. Per un momento interminabile i due animali si scrutarono curiosi, e il ragazzino le avvicinò la punta del dito alle ali, accarezzandogliele con un tocco delicato. Lei, invece che la fuga, preferì la coccola e spostò d'istinto solo di un niente il sedere peloso. Lui allora la invitò a salire sul polpastrello dell'indice, solleticandole lieve le unghie delle zampe anteriori. Lei cedette alle sue lusinghe e salì guardinga. Tra una succhiatina e l'altra le cellette dei suoi occhi non lo perdevano mai di vista, e il sapore dei frammenti di patatine fritte che ungevano la sua impronta le pareva eccezionalmente gustoso.
Non le andava di scroccargli anche delle goccine di sudore perché, per una mosca, quelle erano una proprietà preziosa che mai le mosche si rubavano tra loro.
Be'... quasi mai...

Lui le mise, lentamente, un microscopico grumo di carne davanti al muso che, però, scivolò subito giù dal polpastrello finendo sulla tovaglia di carta sotto, crespa e macchiata di grassi di ogni genere; la mosca gli zompò sopra e prese a succhiarne il grasso bianchiccio incastrato tra gli interstizi abbrustoliti del bocconcino.
Non le pareva vero di aver trovato un amico, non tanto per il cibo che in quel luogo si trovava facilmente, ma per il calore di un'intimità sconosciuta che la fretta, con la quale le mosche vivevano, precludeva. Gli umani, invece, erano dei teneroni nel loro pulsare di pigrizia e lei, per un po' di quell'amorevolezza, era persino disposta al sacrificio.
Non era il sacrificio che, in fondo, caratterizzava il vero amarsi nella sua accezione generale?
Persino quello, raro, tra gli umani?
Così, inseguendo quei magnifici pensieri la mosca percepì, per un attimo, l'ombra furtiva che la stava sovrastando e, sentendosi spacciata, strizzò i suoi poliedrici occhi attendendo la crudeltà del fato che l'avrebbe schiacciata senza pietà.
Invece arrivò un'altra carezza amorevole sulla sua schiena e i suoi occhi incrociarono, per un momento, quelli di un moscone appollaiato sull'orlo di un bicchiere di plastica che cercavano, vanamente, di colpevolizzarla.
Ormai, nel ventaglio delle possibilità che la vita offriva se ne era aperta una inaspettata, e mentre il ragazzino e la mosca si avviavano, ognuno a casa propria, fecero ancora un pezzetto di strada insieme, con negli occhi il riflesso degli stessi e incredibilmente luminosi raggi, dell'unico sole che riscaldava tutti senza preferenze.