cominciamo da qui

venerdì 23 novembre 2007

Un sole luminoso come fosse vero

giovedì 22 novembre 2007

Yelena sul ghiaccio

Adesso era a me che toccava fuggire
(R. Bolaño)

A quell'epoca avevo quindici anni e abitavo in periferia. Vestivo sempre uguale: le trecce bionde sotto la cuffia di lana, i jeans strappati infilati nelle dottor martins.
Gran parte della mia giornata trascorreva camminando nella neve. Ricordo neve dappertutto: il parco ricoperto di neve, la ferrovia bloccata, le fabbriche che aprivano in ritardo. Un inverno da Unione Sovietica. Da crepuscoli atomici.
E mia madre che mi chiamava dall'altra stanza.
"Martina, ho scordato le uova. E due pacchetti di Ms. Ah, e la ricetta per quelle pastiglie, dove l'hai messa?"
Mi ricordava il ronzio del frigorifero. Allora uscivo.
Non so cosa fosse successo al cielo, in quel periodo. Aveva un aspetto livido, malaticcio. Sembrava il cielo Auschwitz dopo la liberazione, come si vede in tv, nelle immagini di repertorio.
Fuori faceva freddo, un freddo insopportabile. Non potevi rimanertene all'aria aperta per più di un'ora. Dopo un po' eri costretto a cercarti un riparo.
Il più delle volte andavo a casa di Luca.

Luca era il mio migliore amico. Ci conoscevamo fin da piccoli, dai tempi della colonia estiva. A Orbetello, in Toscana, doveva essere il 1995.
Suonavo il campanello e salivo le scale del palazzo, scale gelide che sapevano di carne bollita. Luca stava tutto il giorno chiuso in camera. Leggeva libri di fantascienza, fumetti della Marvel e Kafka. Poi disegnava. Disegni pieni d'angoscia per qualcosa di invisibile.
Non mi piacevano per nulla.
Disegni di gente mutilata, a cui mancava una gamba o un braccio oppure tutti i denti. Non mi piacevano per nulla, ma allora non sapevo ancora come sarebbe andata a finire.

Mi sedevo accanto alla finestra e fumavo le sue sigarette. Luca metteva un disco: i Sonic Youth, i Pearl Jam, i Marlene, i Verdena.
Per lo più gli parlavo di Bibo, il ragazzo di cui mi ero innamorata.
Era più grande di noi e frequentava altri giri. Lo conoscevo perché ogni tanto ci vendeva il fumo, a Erica e a me. Poi aveva cominciato a venderci il popper e qualche funghetto. Poi una sera era scomparso con Erica dietro il municipio, e da quella volta tutti sapevamo che se la scopava.
Quella volta avevo dormito a casa di Luca. La mattina mi era venuta paura di uscire casa, nonostante fosse ancora settembre e ci fosse ancora il sole e non avesse ancora cominciato a nevicare.
Ero rimasta a casa di Luca quattro giorni.
Mia madre le aveva provate tutte, per portarmi indietro. Alla fine aveva chiamato i carabinieri. Ero salita sulla volante senza dire una parola, ma avevo freddo e mi veniva da vomitare.
La gente del palazzo mi guardava dalle finestre.
Anche Luca mi guardava, dalla porta della scala E, immobile come un pezzo di legno. Non un gesto, non una parola, niente di niente.
Restava lì e mi guardava, senza espressione.

In quel periodo, anche Luca stava vivendo un amore infelice.
L'amore di Luca era russo. Si chiamava Yelena.
Una ragazza piuttosto insignificante. Bionda, leggera, diafana. Ti faceva pensare ad un origami. Era una pattinatrice su ghiaccio e in prima stava in classe con noi. Prima B, liceo scientifico Salvador Allende. Poi aveva lasciato per dedicare tutto il suo tempo allo sport.
Era successo così, in un'estate. Prima c'era e poi non c'era più. Luca era diventato più silenzioso.
Io, con Yelena, avevo parlato sì e no due volte in tutto l'anno. La prima volta avevamo parlato della macchina del caffé, che non funzionava.
La seconda volta le avevo chiesto della Russia. I suoi avevano lasciato Mosca nel 1990, quando Yelena aveva cinque anni.
"Perché?", le avevo chiesto. E lei aveva risposto:
"Perché mio padre è comunista".

Uno dei passatempi preferiti di Luca era disegnare Yelena. La ritraeva in tutte le posizioni. Ritraeva anche singole parti del suo corpo, come il gomito o il ginocchio, per esempio.
Però in questi disegni era sempre presente un'interferenza: un grosso cappello che copriva il volto, un'inflorescenza al posto della mano, una serratura al posto della bocca.
Una volta scrisse un racconto che parlava di Yelena. Era un racconto di fantascienza.
In una città devastata e semideserta, pezzi di corpo umano sorgevano dall'asfalto. Assemblandosi gli uni agli altri davano vita ad una donna di vetro.
Nelle ultime righe del racconto la donna cominciava a ballare, mentre qualcosa di enorme e innominabile esplodeva all'orizzonte.

Tutto questo successe durante il primo anno di liceo.
Poi venne l'estate e partii per l'Inghilterra. Tornai a casa con una settimana di anticipo e un principio di intossicazione alimentare. La famiglia aveva trovato delle pastiglie nel cassetto del comodino e l'aveva detto agli accompagnatori. Loro mi avevano mandata a casa con il primo aereo.
Questo a luglio. Ad agosto Luca stava in riviera con i suoi e non ci vedemmo.
Sul finire di agosto feci per la prima volta un pompino ad un ragazzo, sotto le gradinate del campo sportivo abbandonato. Poi ricominciò la scuola.
Yelena non c'era più. Luca era diventato strano, quasi non lo riconoscevo.
Poi cominciò a nevicare.

Un pomeriggio di gennaio stavo con Luca davanti al Penny della circoscrizione nord-est. Avevamo comprato un pacco di pop-corn e due lattine di birra, che non riuscivamo a bere per via del freddo.
Non avevamo programmi per il pomeriggio. Stavamo in una zona desolata: case popolari, un parcheggio, un prato ghiacciato cosparso di rifiuti, un muro diroccato e il CPT.
E poi il palazzo del ghiaccio.
Quello dove si allenava Yelena.
"Ogni tanto ci vengo", disse Luca. "A vederla pattinare".
"Perché non entriamo?", chiesi. "Non abbiamo niente da fare, intanto".

Stava lì in mezzo, in quel quadrato di ghiaccio, ed era bellissima. Il quadrato era enorme e lei piccola e fragile. Le gradinate erano vuote. La pista era vuota. Era l'unico essere umano in tutto l'edificio.
Ed era bellissima. Yelena sul ghiaccio era tutta un'altra cosa che Yelena sulle scale del liceo scientifico Allende.
"Che bella", dissi.
Ma gli occhi di Luca erano due biglie scure.
Poi mi accorsi dell'allenatore. Un vecchio basso e mingherlino, con una faccia da cane. Era vestito da sci. Stava al bordo della pista e fumava sigarette che poi spegneva sotto le suole delle scarpe.
Ad un tratto si voltò verso di noi e cominciò a fissarci.
Luca disse: "Andiamo via".

L'inverno trascorreva in questo modo. Luca al palazzo del ghiaccio, io alle feste nei capannoni industriali. Storie d'amore e crepuscoli atomici.
Ero un po' innamorata di Alberto dei Verdena, ma solo quando fuori il cielo era troppo basso e viola per uscire.
Allora Alberto cantava: "E anche se non c'è miele | mi viene dolce | e penso sempre lo stesso | mi affogherei".
Volevo che Bibo mi scopasse. Che mi facesse salire sulla sua Punto, accostasse in un parcheggio deserto e cominciasse a scoparmi.
Ma questo non succedeva.
Passavano i giorni. Luca era sempre più silenzioso ma io non me ne accorgevo.
Io, a quel punto, stavo già cominciando a fare confusione. Confondevo le donne bioniche con la matematica, Altair IV con le allucinazioni da funghetto, la civiltà post-atomica con il punk, il volto di Kurt Cobain con quello di Bibo, il mio corpo con quello di Yelena.
Con Luca mi vedevo poco. Ognuno stava rintanato nella sua storia d'amore. All'intervallo fumavamo insieme. Di solito nessuno dei due diceva una parola.

Yelena pattinava sul ghiaccio. Il liceo scientifico Allende era coperto dalla neve.
Luca passava le ore di matematica a disegnare corpi di donna. Fragili come ramoscelli. Destinati alla distruzione.
Anche il cortile del liceo era ghiacciato. Un rettangolo d'erba secca, dove si ammucchiavano vecchi mobili, pacchi di riviste letterarie ancora avvolte nel cellophane e cocci di lampade al neon.
Per il resto erano lunghe camminate in un edificio vuoto.
Corridoi vuoti e lampade al neon. Lavagne, scale, interminabili ore di ginnastica passate con i Tre Allegri Ragazzi Morti nel lettore cd.
Ogni mercoledì pomeriggio il cineforum. Lo gestiva un ragazzo rachitico di quinta. I titoli erano cose come "Milano calibro 9", "Napoli violenta" eccetera.
Storie di malavita cittadina, dove, nel finale, il buono moriva di cancro o tradito dalla fidanzata.
Oppure film fascisti. Questo almeno è quello che ricordo.
"E anche se non c'è miele..."
Luca era lontano anni-luce, sul Terzo Pianeta, in una realtà parallela. Di Yelena non sapevo più nulla. Di Bibo nessuna traccia.

Poi, sul finire di febbraio, successero due cose.
Un pomeriggio passai a trovare Luca. Mi aprì sua madre. Non era in casa, ma sarebbe tornato presto. Volevo aspettarlo in camera sua?
Sì, volevo.
Andai a sedermi sul letto. Le imposte erano chiuse. Le aprii sul cortile interno, sul palazzo di fronte con i panni stesi ad asciugare.
Nel cortile c'era un gatto. Stava annusando la carcassa di un piccione. Poi mi accorsi dei disegni.
Erano appesi alle pareti di cartongesso con le puntine da disegno.
Raffiguravano tutti Yelena. Yelena con le braccia sollevate, Yelena su una gamba sola.
Una particolarità: niente interferenze. Niente mutilazioni, niente cappelli, niente inflorescenze, niente serrature.
Fu a questo punto che mi accorsi di qualcosa. Li guardai da vicino. Poi mi allontanai. Poi uscii sul balcone e inalai tutta l'aria che mi fu possibile.
Poco dopo arrivò Luca.

Alcuni giorni più tardi si mise a piovere.
Era un lunedì. Passai la serata a guardare la pioggia battere contro i vetri. Guardai un film alla televisione e verso le undici andai a dormire.
Quasi subito dopo un rumore mi svegliò.
Il cellulare. Stava suonando. Guardai l'ora: l'una e venticinque.
Era Luca. Si scusò per avermi svegliata. Disse che non riusciva a dormire. Disse che qualcosa non andava.
Gli chiesi che cosa c'era che non andava e subito me ne pentii.
Allora lui cominciò questo discorso. Un discorso sulla paura e sulla fragilità e sugli errori che gli uomini commettono senza nemmeno rendersene conto. Parlò del destino collettivo della specie e dell'autodistruzione. Parlò dei suicidi di massa.
Disse che esiste una razza di uomini che possiede il dono della percezione, esseri senza pelle che espongono al mondo la carne viva e i nervi.
Poi disse: "Non posso credere che stia succedendo davvero".

Questo accadde la notte di lunedì.
Martedì Luca non venne a scuola. Quando gli telefonai, quel pomeriggio, disse che aveva la febbre. Che sarebbe mancato da scuola per un po'. Che non passassi a trovarlo perché era in uno stato pietoso, mal di testa, vomito, brividi di freddo.
Due giorni dopo morì Yelena.

Appresi la notizia dalle mie compagne di classe. Poi lessi il giornale e guardai il TG regionale.
Era stata investita da un furgoncino che trasportava piastrelle. Il furgoncino le aveva strappato la gamba destra dal corpo. Era morta dissanguata in pochi secondi, prima che l'ambulanza arrivasse.
L'autista era stato fermato dalla polizia e interrogato.
Non era ubriaco, non andava oltre il limite di velocità, non aveva avuto un colpo di sonno. Aveva la fedina penale pulita. Era attendibile.
L'unica cosa che disse fu che non l'aveva vista. Che era comparsa dal nulla. Che si era praticamente buttata sotto le ruote.

La prima cosa che feci fu di chiamare Luca.
Rispose sua madre. Luca non c'era. Mancava da casa da più di ventiquattrore. Forse io avevo idea di dove fosse andato a finire.
"Ma non aveva la febbre?", chiesi.
Sua madre disse: "Febbre?"

Solo a questo punto cominciai a mettere in ordine gli eventi.
Ci volle un decimo di secondo, il tempo di posare il ricevitore sul tavolo della cucina.
Yelena lascia il liceo. Luca diventa più silenzioso. Yelena al palazzo del ghiaccio. Luca disegna pezzi di corpo umano. Yelena viene mutilata e uccisa da un furgoncino che trasporta piastrelle. Luca scompare.
Un furgoncino è un oggetto. Un oggetto è il mondo. Yelena era fatta di vetro, troppo fragile per il mondo.
Luca lo sapeva. Stava immobile come un insetto e aspettava il momento giusto. Stava lì fermo, senza espressione, come un fantoccio senza vita.
Luca sapeva tutto fin dall'inizio.

Fu a questo punto che tutto divenne chiaro.
Allora andai a sedermi sul divano del salotto e accesi la televisione.
Passò una settimana. La storia era sulla bocca di tutti, ma potevi non ascoltarla. Potevi far finta di niente oppure cambiare canale e guardare un documentario sui coccodrilli.
A volte mia madre piangeva.
Si sedeva sul divano accanto a me, mi prendeva la testa tra le mani e si metteva a piangere. Mi chiedeva di parlare. Diceva che dovevo alzarmi dal divano, farmi la doccia, mangiare.
Io ogni tanto mi alzavo per fare la doccia e per mangiare, ma poi tornavo a sedermi davanti al televisore. Guardavo documentari. Partite di calcio. Talk show. Televendite.
Dicevo: "Mamma, sto solo guardando un po' di tv".
Ma non era vero.
Solo che lei non poteva capire. Mia madre non crede nel destino. Dice sempre che bisogna darsi una scossa, tornare a combattere.
Non poteva capire quello che stava succedendo. Non sa cosa significa attendere e non sa cos'è la paura.

Non sa cos'è il desiderio.
Una mosca nella tela del ragno non desidera soltanto di essere divorata. Una donna sì. Ero caduta nella trappola, non potevo far altro che aspettare.
Luca aveva ragione.
Sembrava impossibile, ma stava succedendo davvero.

Passavo sul divano anche la notte. La tv accesa. Il volume a zero.
Mia madre mi aveva portato una coperta. Ogni tanto il cellulare squillava, ma io non rispondevo.
Mi accorsi del rumore quasi subito. Mi svegliai, mi tirai a sedere, guardai l'ora: le cinque meno venti del mattino.
Buio. Silenzio. In tv una programma di automobili.
Rimasi in attesa. I denti stretti, tutti i muscoli in tensione.
Poi sentii di nuovo il rumore. Qualcosa che grattava alla porta. Qualcosa che grufolava. Come un rumore di sottobosco, un rumore selvatico.
Continuava a grattare. Rumore di unghie contro la porta.
Allora capii che era arrivato il momento.
Mi alzai e andai ad aprire.

martedì 13 novembre 2007

non ha senso


venerdì 2 novembre 2007

affondo



ci hanno messi seduti a terra, in fila.
ognuno ha le sue buste, le borse, qualche scatola. all'alba è arrivato mio fratello, impazzito, urlava, e io ho cominciato a raccogliere i vestiti e i bicchieri sbeccati.
guardo il pentolino ammaccato e mi chiedo cosa c'entriamo noi con questa storia: non siamo romeni. poi penso, non siamo nemmeno altro, non siamo di alcuna terra, se non di questa striscia lungo il tevere, quindi siamo romeni anche noi. l'abbiamo uccisa anche noi quella donna, dobbiamo andarcene.
il poliziotto mi chiede i documenti. è gentile in fondo. mi urta ma senza volerlo, mi chiede anche scusa. ma non mi lascia alzare per raccogliere il pentolino che m'è caduto dalle mani.
penso alle nostre donne che non muoiono mai. si allontanano la sera e semplicemente certe volte non tornano più dal lavoro.
non ce li ho, io, i documenti e il mio pentolino continua a rotolare, lo indico al poliziotto ma lui non si volta.
le nostre donne urlano nelle tende contro i loro uomini e poi spariscono.
quando cade nel fiume il sole riflette sulla latta e lo rende per niente diverso da un pentolino integro, affonda in un attimo e la superficie verde torna immobile e indifferente.

lui è il posto


La superficie ferma riflette il mio cielo dandogli finalmente
un ordine bagnato.

Il lago più bello che abbia mai visto

Mi vedo entrare nell'acqua gelida, i vestiti mi si gonfiano attorno. La testa si raffredda e ridiventa mia. Il sole del deserto mi picchiava addosso da un tempo indefinito facendo svaporare ogni volontà.
[LA SUA SPONDA]
LA SUA SPONDA
(mi sembra di esserci stata un milione di volte)

Non voglio che la porta che si è chiuso alle spalle sparisca del tutto, cerco di andare verso di lui ma non riesco a dirigere il mio corpo, non riesco a guardare fisso davanti a me.

Lascio tutto indietro.

Questa piccola parte di universo può bastarmi, non ho bisogno d’altro.

Lascio tutto indietro.
“di quel pezzetto di universo, non ha bisogno d’altro"
Sono pronta. Lascio tutto indietro. Non voglio altro.